Uscendo dalle urne, molti elettori iracheni hanno mostrato le dita sporche di inchiostro viola, in segno di soddisfazione per la vittoria del voto sul terrore. L’affluenza è stata alta (62,4 per cento, secondo i dati diffusi ieri dall’Ufficio elettorale), inferiore alle elezioni del 2005, ma superiore alle scorse provinciali. E’ un colore viola, quello dell’inchiostro iracheno, che ci piace molto di più di quello usato dall’italico movimento di protesta. Ma questa è un’altra storia. Torniamo all’Iraq e alle elezioni.
“E’ un risultato ottimo – commenta Stefano Magni, giornalista de L’Opinione ed esperto di politica internazionale – un passo in avanti significativo, soprattutto se consideriamo che l’affluenza è stata alta anche tra la componente sunnita. Quest’ultima è riuscita a superare lo shock dell’esclusione di circa 500 candidati ritenuti vicini al partito Ba’ath”. E’ significativo che il giudizio di Magni sia condiviso da Carlo Alberto Cuoco, ricercatore dell’Istituto di Relazioni internazionali di Praga, uso ad analisi più realiste del giornalista de L’Opinione: “Sì – sottolinea Cuoco – la cosa più importante è la partecipazione dei sunniti, soprattutto se consideriamo che questi ultimi hanno appogiato in massa Ayad Allawi, sciita. E lo hanno fatto in funzione anti-Iran”.
Per Al Qaida, le elezioni sono state uno smacco. Per la prima volta, l’esercito iracheno si è occupato della sicurezza del voto, senza il supporto delle forze occidentali. “Ed il livello di sicurezza – aggiunge Magni – è stato elevato ed efficace: ci sono stati attentati a Bagdad, Mossul o Falluja, ma nulla in confronto al livello di tensione raggiunto il mese scorso, con doppie o triple autobombe fatte saltare in aria in contemporanea. L’esercito iracheno ha fatto un buon lavoro, la scelta di Malaki di puntare anzitutto sulla sicurezza ha pagato”.
Insomma, ha avuto ragione Bush? Non ha dubbi in proposito Fiamma Nirenstein, che sulle pagine de Il Giornale ieri ha evidenziato come dall’Iraq “non è uscito un fiume di petrolio per gli americani, ma una speranza di libertà per tutto il Medioriente”. Se verranno confermati, i risultati elettorali mostreranno una tendenza interessante, il superamento delle divisioni etniche nel voto a vantaggio dei partiti “trasversali”, a partire da quello del premier uscente Nuri Al Maliki, ma soprattutto grazie all’approccio ‘nazionale’ e non etnico di Ayad Allawi. Segno, a detta di Magni, “che è ormai diffusa la percezione di legittimità delle istituzioni nazionali”. La stessa Nirenstein è convinta che sia in atto un processo di unificazione nazionale: “Oggi, quando un candidato importante come Ayad Allawi ci dice che finalmente fra tutti gli iracheni, sunniti, sciiti, curdi, arabi, esiste la volontà comune di diventare una nazione sì composita, multietnica, ma unita e soprattutto libera, possiamo fidarci”.
Non sono tutte rose e fiori, ovviamente. La cautela è d’obbligo e prima di giovedì non sapremo se davvero Al Maliki potrà guidare il prossimo esecutivo e soprattutto, come sottolinea Magni, “con chi governerà”. L’alta partecipazione dei sunniti al voto pone le basi per una loro partecipazione alla dialettica democratica, ma la ‘parlamentarizzazione’ del confronto tra etnie “introduce – è questo il commento di Cuoco – un elemento di novità rispetto al passato che potenzialmente rende ancora più complessa la formazione di una coalizione di governo”. Dal 2005 ad oggi, ragiona l’analista, “le coalizione di governo sono state formate senza la presenza dei sunniti in parlamento, ora quella presenza è praticamente certa: hanno piena voce in capitolo in parlamento e nel processo politico”. Comprendere come questo nuovo fatto influenzerà il processo di costituzione di una maggioranza di governo è l’interrogativo aperto delle prossime settimane. Uno scontro che si trasforma in confronto parlamentare “è positivo a bocce ferme, ma qualunque processo politico non resta statico”, evidenzia Cuoco, per il quale “le dinamiche politiche innescate dalla inclusione nella vita democratica dei sunniti porranno problemi nuovi e richiederanno soluzioni altrettanto innovative”.
L’equilibrio politico del dopo-elezioni è fondamentale per stabilire il rapporto tra l’Iraq e gli Stati Uniti relativamente ad un impegno militare americano successivo al ritiro delle truppe, previsto per il 2011. E’ ancora Carlo Alberto Cuoco a spiegarci perché: “S’inizia a ventilare l’ipotesi di un accordo che Obama proporrebbe al nuovo governo, una presenza militare USA nel paese, minima ma rilevante, in funzione anti-Iran”. Vuoi vedere che l’amministrazione Bush avesse avuto davvero ragione?