- Provetto sciatore, il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, scivola sulle nevi delle relazioni internazionali come fosse in un fuori pista, sulla via cioé più azzardata e adrenalinica, ma anche la meno razionale per raggiungere la meta. Se la destinazione del nostro stare nel mondo è portare più democrazia, perché immaginare di poterci arrivare sostenendo le dittature?
In Afghanistan siamo andati e continuiamo a starci per affermare l’imperativo morale della libertà dei popoli – tutti i popoli – dalla teocrazia criminale. E libertà, per noi occidentali, vuol dire democrazia. Anche in Iraq siamo andati impostando il navigatore sulla rotta democratica. Non per scongiurare un pericolo incombente, ma perché la non-democrazia è lei stessa pericolosa. Un non-stato di diritto minaccia chi lo subisce, e minaccia pure la comunità internazionale che, in un modo o nell’altro, è costretta a pagarne i costi. Le non-democrazie, appunto, sono un problema.
Con Russia, Libia, Bielorussia (e presto, chissà, magari con la nuova Ungheria) siamo, però, diventati amici intimi. Eppure democrazie non lo sono. Qual è dunque – se c’è – l’orizzonte strategico che illumina le nostre politiche internazionali? Intervenuto sabato a Che tempo che fa – il Ministro Frattini l’ha spiegato così: la Russia è una democrazia che si sta consolidando e che sta crescendo. Isolarla sarebbe sbagliato. Noi invece le siamo vicini per aiutarne l’evoluzione verso la compiuta maturità.
Sensato.
Sul gradiente democratico, tuttavia, i buoni di auspici di Frattini, in Russia, hanno prodotto ben poco. Su Khodorkovskji, ad esempio, e sull’inaccettabilità dell’uso politico della giustizia, reagire avrebbe dovuto essere un imperativo categorico per la coscienza democratica e garantisca del Ministro pidiellino. E se Frattini non poteva permettersi – lo ha dichiarato lui – di dare lezioni a Mosca in fatto di civiltà giuridica, il Presidente Berlusconi, lui, a quel sant’uomo di Vladimir due paroline nell’orecchio avrebbe avuto il dovere di sussurrarle. Certo, se neanche tovarich Silvio può spingersi a tanto, vuol dire allora che la diplomazia della pacca sulle spalle non vale poi sto granché. Oppure che della democrazia, a Frattini ed al suo superiore, importa poi non così tanto.
Eppure è strano, perché sui fronti geo-politici aperti dall’asse atlantico, noi stiamo tra quelli che pretendono dalle non-ancora-democrazie – la afgana e la irakena, nella fattispecie – azioni democratiche concrete: le libertà civili ed il rispetto dei diritti umani, ad esempio. Con Putin, chissà perché, siamo invece meno perentori. E non solo con lui.
Prendiamo la Libia. Aver trasformato la Giornata dell’Odio in Giornata dell’Amicizia è, per il portavoce della diplomazia berlusconiana, un grande risultato, e non solo simbolico. Prima del trattato, e del generoso riconoscimento dei danni coloniali, i libici ci odiavano. O meglio, ci odiava Gheddafi. Ora invece Gheddafi ha in Berlusconi l’unico leader di un paese democratico capace di parlare la sua stessa lingua, e allora non ci odia più.
L’odio, tuttavia, non è una categoria del diritto, come non lo è l’amicizia. La possibilità di odiare – o amare, secondo discrezione – significa la possibilità di violare i diritti umani, reprimere la libertà. Poter dire ad un ex amico, adesso mi dai quello che ti chiedo o ti invado le coste di rifugiati. È per questo che le democrazie non odiano.
Gheddafi ha fatto in modo che l’odio per l’Italia si tramutasse in amore, agendo sul ricatto e baloccandosi su un impegno tanto discrezionale quanto giuridicamente etereo quale è l’amicizia personale tra lui e l’attuale Presidente del Consiglio. Se l’umore gli dovesse nuovamente virare al cattivo, noi avremmo poco altro da fare, se non cedere. Abbiamo affari in Libia, abbiamo il gas che viene da lì. Abbiamo i pescherecci che orsono pochi mesi hanno rischiato di venire affondati dai fratelli dell’altra sponda.
E visto che siamo in Europa, nel G8, e comunque nei radar della diplomazia internazionale, abbiamo anche il dovere, oltre che l’interesse, a praticare relazioni strategicamente coerenti, perché la coerenza rafforza la credibilità e dunque il peso negoziale. Quando si eccepisce a Berlusconi l’opportunità della sua politica geo-amicale, è perché a ben vedere abbracciare Lukashenko e spassarsela con Putin, o far fare a Gheddafi quello che vuole dei disperati africani che arrivano nel suo ospitale territorio, rafforza o indebolisce la credibilità dell’Italia che sta con gli Usa in Afghansitan, per la democrazia e la libertà? L’ambasciatore americano a Roma, David Thorne, ci dice che è tutto ok. Bene
Ci si permetta, tuttavia, una considerazione. Il leader beduino viene in Italia a fare recruitment musulmano senza che il governo a trazione ecclesiastica di Berlusconi colga l’opportunità per affermare i diritti della cristianità. Avrebbe potuto chiedere a Gheddafi almeno la reciprocità: libertà di culto e di proselitismo cristiano in terra libica. In Libia i cristiani sono pochi e non sono liberi. E non saranno né più numerosi né più liberi finché da quel profeta di pace che è Muammar Gheddafi continueranno a ricevere trattamenti come questo.
Non è in fondo proprio in nome della libertà di culto che, giustamente, l’Italia si è levata contro l’indifferenza cialtrona che la responsabile della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha riservato alle recenti stragi di copti, pretendendo dall’Europa giudaico-cristiana una sferzata di civiltà?
Il fatto è che nello sci la discesa conta più dell’arrivo. Nelle relazioni internazionali invece è il contrario. Per carità, magari il nostro obiettivo non è (più) la democrazia. E se è così, ci chiediamo allora, la bussola che guida i nostri rapporti nel mondo dove esattamente intende arrivare a parare?